Viviamo nell’era dell’informazione, dove la vera ricchezza non è più costituita da risorse fisiche come il petrolio o l’oro, ma dai dati. Ogni volta che utilizziamo un’applicazione, inviamo un’e-mail, scattiamo una foto o ci colleghiamo a un servizio online, lasciamo una traccia digitale. Queste tracce finiscono spesso nel cloud, un termine che viene usato con leggerezza ma che rappresenta un meccanismo complesso e, per molti aspetti, inquietante. A dominare questo ecosistema ci sono le grandi big tech – Google, Amazon, Microsoft, Meta e altri – che hanno costruito le infrastrutture digitali su cui ormai si regge il mondo. Ma a quale costo?
Cos’è il cloud? Un esempio semplice
Per comprendere cosa sia il cloud, immaginiamo una grande biblioteca virtuale. Invece di conservare i nostri file, foto o dati personali sul computer di casa o sullo smartphone, li inviamo a questa biblioteca, che li immagazzina in enormi server distribuiti in tutto il mondo. Questi server sono accessibili ovunque ci troviamo, purché abbiamo una connessione Internet.
Per esempio, se scatti una foto con il tuo telefono e la carichi su Google Foto, quella foto non risiede solo sul tuo dispositivo. Viene inviata ai server di Google, che possono trovarsi a chilometri di distanza, in una struttura protetta e raffreddata 24/7 per garantire il funzionamento delle macchine. Questo è il cloud: una rete di computer collegati che conservano e gestiscono i dati al posto nostro.
Ma il cloud non è solo un contenitore di dati. Rappresenta anche una piattaforma per elaborare queste informazioni, utilizzarle per sviluppare servizi innovativi e, purtroppo, sfruttarle in modi che spesso sfuggono al controllo degli utenti.
La profilazione delle nostre vite: cittadini, aziende e pubbliche amministrazioni
Ogni dato che carichiamo nel cloud non è neutrale. Ogni messaggio, ogni foto, ogni preferenza di acquisto viene analizzata, catalogata e utilizzata per tracciare un profilo dettagliato di chi siamo. Queste informazioni vengono sfruttate non solo per proporci pubblicità personalizzate, ma anche per influenzare le nostre decisioni, dai prodotti che compriamo fino ai candidati politici che potremmo votare.
Non si tratta solo dei singoli cittadini. Anche le aziende e le pubbliche amministrazioni stanno migrando al cloud, affidando a terze parti i propri dati sensibili. In Italia, il diritto amministrativo e norme come il Codice dell’Amministrazione Digitale (D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82) incentivano e, in alcuni casi, obbligano l’adozione del cloud per motivi di risparmio e efficienza. Tuttavia, questo risparmio viene ottenuto al prezzo di sacrificare il controllo sui dati. Contratti, documenti legali, dati finanziari e persino le operazioni di governi locali o nazionali sono conservati nei server delle big tech, spesso situati all’estero. Questo significa che non solo i nostri dati personali, ma anche l’infrastruttura decisionale di interi stati dipende da poche multinazionali. Il prezzo da pagare per questa centralizzazione è altissimo, e le sue conseguenze potrebbero diventare evidenti solo in futuro.
Le grandi aziende tecnologiche, infatti, non si limitano a conservare i dati. Li elaborano per creare potenti strumenti di analisi che permettono di anticipare comportamenti, individuare tendenze e persino manipolare mercati o opinioni pubbliche. Questo processo, apparentemente neutrale, nasconde dinamiche di potere estremamente pericolose, dove il controllo delle informazioni diventa un’arma geopolitica.
Il pericolo di un controllo globale
Chi possiede i dati, possiede il potere. Le grandi aziende tecnologiche hanno costruito un monopolio sui dati che nessuno stato è in grado di contrastare. L’intelligenza artificiale (IA), alimentata da queste informazioni, sta diventando uno strumento di controllo straordinario.
Per esempio, algoritmi avanzati possono analizzare enormi volumi di dati per prevedere i comportamenti di intere popolazioni, individuando tendenze e modelli. Questi algoritmi non si limitano a osservare, ma possono essere utilizzati per monitorare il dissenso, influenzare l’opinione pubblica attraverso campagne mirate e manipolare decisioni politiche o economiche. Le big tech raccolgono dati dai social media, dai dispositivi connessi e dalle piattaforme digitali, creando profili estremamente dettagliati degli individui. Con queste informazioni, possono orientare i consumatori verso specifici prodotti, suggerire contenuti e persino influenzare decisioni elettorali, come dimostrato nel caso Cambridge Analytica. Inoltre, gli stati privi di infrastrutture tecnologiche indipendenti si trovano costretti a dipendere da queste aziende, che accumulano un’influenza geopolitica ed economica senza precedenti, decidendo di fatto le regole del gioco globale.
Questa dipendenza tecnologica porta a scenari preoccupanti, in cui il controllo delle informazioni diventa più importante della loro gestione. Le big tech, di fatto, possono influenzare non solo i mercati, ma anche le politiche pubbliche, decidendo quali settori privilegiare e quali invece penalizzare.
La falsa promessa della privacy
Molti dibattiti ruotano intorno alla privacy, ma la verità è che, nel mondo del cloud e dell’IA, la privacy è una chimera. Questo perché, nonostante le promesse di sicurezza e anonimato, ogni dato che carichiamo può essere analizzato, correlato e sfruttato. Ad esempio, quando usiamo assistenti vocali come Alexa o Google Assistant, ogni interazione viene registrata e utilizzata per migliorare gli algoritmi o per scopi commerciali. Anche i social media e i servizi cloud possono accedere ai nostri dati personali, analizzando le abitudini di navigazione, gli interessi e persino le conversazioni private per costruire profili dettagliati. Questo rende la privacy più un ideale che una realtà concreta. Anche quando accettiamo condizioni d’uso che promettono di proteggere i nostri dati, questi vengono comunque analizzati per scopi commerciali o, in alcuni casi, condivisi con governi o agenzie di sicurezza. Ad esempio, documenti emersi nel caso di Cambridge Analytica hanno rivelato come dati personali raccolti da piattaforme social siano stati utilizzati per influenzare elezioni politiche. Allo stesso modo, aziende tecnologiche hanno collaborato con governi per fornire accesso a dati sensibili, come avvenuto con il programma PRISM dell’NSA (fonte), che sfruttava informazioni da Google, Facebook e altri giganti del web per sorveglianza di massa.
Le normative, come il GDPR in Europa, rappresentano un tentativo di regolare questa situazione, ma sono strumenti limitati di fronte a un fenomeno che evolve rapidamente. Nel frattempo, i cittadini restano inconsapevoli della portata delle informazioni che cedono e delle conseguenze che questo comporta.
Un futuro senza alternative?
La vera domanda non è se possiamo fermare questa evoluzione, perché ormai è chiaro che non possiamo. Il cloud e l’IA sono diventati pilastri fondamentali della società moderna, influenzando profondamente settori come la sanità, le smart city, il commercio e l’intrattenimento. Tuttavia, è indispensabile che i cittadini e le istituzioni comprendano i rischi che derivano da questa dipendenza tecnologica e dalle implicazioni sul controllo delle informazioni.
L’educazione digitale dovrebbe diventare una priorità assoluta, con programmi mirati a far comprendere alle persone non solo dove finiscono i loro dati, ma anche come questi vengono sfruttati a livello commerciale e geopolitico. Inoltre, è fondamentale che gli stati investano massicciamente in infrastrutture tecnologiche indipendenti, creando alternative locali e sicure per ridurre la dipendenza dalle big tech e garantire una maggiore sovranità digitale.
Conclusione
Siamo entrati in un’era in cui le informazioni rappresentano la chiave del potere. Le big tech dominano questo panorama, ma il costo di questa centralizzazione è altissimo. Tuttavia, un futuro alternativo potrebbe essere possibile grazie alla decentralizzazione e all’uso dell’intelligenza artificiale. Immaginiamo un sistema in cui i dati non siano più concentrati nelle mani di poche aziende, ma gestiti in modo distribuito da reti indipendenti e sicure. L’IA potrebbe fungere da garante, analizzando e proteggendo i dati senza l’intervento umano diretto, mitigando così il rischio di abusi.
Prevedere con certezza cosa accadrà è difficile, ma è fondamentale continuare a informare e a discutere. Solo così possiamo favorire uno sviluppo tecnologico consapevole, dove la privacy e il controllo delle informazioni non siano completamente sacrificati in nome dell’innovazione. La consapevolezza resta il primo passo per affrontare questa sfida, anche se il percorso è irto di ostacoli e domande senza risposta.